Governare il cambiamento con l’intelligenza emotiva

Di: Sarah Cossu

Articolo pubblicato su: InPharma Magazine

Recentemente un farmacista mi ha chiesto: “Tra e-commerce e intelligenza artificiale, tra quanto tempo arriveranno a ridurre il personale in farmacia, magari a fare a meno di me?”.

È una domanda che non può essere ignorata quando ci si forma come coach della salute e si mette al centro della propria identità professionale e competitività proprio la relazione personale. Nella quarta rivoluzione industriale la paura in realtà riecheggia in molti settori e nella mente di tanti lavoratori.

L’intelligenza artificiale (AI) è e sarà in ogni business, di qualunque dimensione. Con tutto il suo corredo, come l’Internet of Things, il deep Learning che fa sì che l’interazione dei clienti con chatbot online e robot sia sempre più efficace, l’AI suscita reazioni sia entusiastiche sia apocalittiche. E intanto gli investimenti nella ricerca, dall’industria della salute e farma, al retail e alla sicurezza sono in grande crescita.

Le Big Company (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft etc.) fanno a gara a rilevare startup che si occupano di questo settore, un segno chiaro di come il nostro modo di essere consumatori, cittadini, pazienti è destinato a cambiare.

L’AI è già entrata nelle nostre vite, sia in modo un po’ inconsapevole (pensiamo alla gestione dei dati, alle applicazioni che tracciano i nostri movimenti di consumatori online e offline e di cittadini), ma anche nelle scelte consapevoli di comodità e vantaggi quotidiani.

E non sono solo i nativi digitali a essere attratti da app di ogni genere e assistenti virtuali come Siri e Google Now, o Cortana, la chatbot che ha debuttato in Windows 10. Sempre maggiore è l’attenzione per le segretarie virtuali che parlano fino a 30 lingue; cervelloni virtuali che cercano in rete risposte ai nostri quesiti, imparano dall’esperienza avvicinandosi sempre più ad assistenti in carne e ossa dalla memoria eccellente e discrete “sinapsi”, distinguono sfumature del nostro linguaggio.

È tale il vantaggio dell’AI in molti ambiti, dalla ricerca medica alla produzione, dal marketing all’efficienza della catena di distribuzione, che è naturale pensare a cambiamenti radicali anche nel mondo del lavoro. Le previsioni, per quanto fluttuanti, vedono alcuni mestieri trasformarsi e altri scomparire.

Nel World Economic Forum a inizio 2018 è emerso che il 16% delle professioni attuali è a rischio nei prossimi 10 anni. Decisamente più importanti i numeri di quelle che saranno in parte automatizzate e un po’ in tutti i settori, anche in quelli più creativi, l’AI avrà il suo impatto.

Anche la farmacia nella sua trasformazione globale registra cambiamenti in tale direzione, a partire dai robot che ottimizzano la gestione del magazzino e i processi collegati, app, servizi telematici, totem e scaffali digitali. La strada è quella di raccogliere e rielaborare in modo sempre più preciso e ricco i dati dei clienti per dare soluzioni personalizzate e assistenza nella cura, con tutta la complessità e i rischi in termini di privacy.

Insomma, anche ai più scettici e timorosi dico: non c’è da resistere al nemico quando lo abbiamo già accolto e fatto accomodare in salotto. Piuttosto c’è da fare il punto su come trasformarsi per cogliere il meglio di questa rivoluzione e identificare le aree in cui le persone, i professionisti in carne e ossa, fanno e faranno ancora la differenza con un uso “socialmente ed emotivamente intelligente” dell’AI.

AI E SALUTE

Qui l’applicazione dell’AI offre grandi progressi a vari livelli. Pensiamo alle app che facilitano la personalizzazione di programmi salute e aiutano il monitoraggio e il sostegno dell’aderenza alla terapia. Prezioso l’impiego nella diagnostica grazie a una capacità “sovraumana” di collegamenti tra informazioni, precisione nella lettura di TAC, risonanze magnetiche etc. e assistenza diagnostica per casi complessi, preziosissimi nell’approccio preventivo e predittivo alle malattie.

I robot entrano anche in sala operatoria come “braccia integrative” ad alta precisione. E qui la prima rassicurante riflessione: non si punta a sostituire il medico o il chirurgo, ma a dare supporto per migliorare la performance.

In un esperimento dell’Università di Harvard un gruppo di patologi è riuscito a diagnosticare casi di cancro al seno con un’accuratezza

pari al 96%. Le stesse biopsie sono state analizzate anche da un sofisticato sistema AI che ha qualificato correttamente la malattia nel 92% dei casi.

Ma, ancora più interessante, un campione di patologi assistito dal medesimo algoritmo ha condotto a

diagnosi accurate nel 99,5% dei casi. Emblematico.

La strada è chiara: l’uomo al centro e l’AI al suo fianco per raggiungere risultati straordinari. D’altra parte se pensiamo al dialogo tra paziente e medico, o altro operatore della salute all’interno

di una relazione di

supporto, ciò che accade va ben oltre la rilevazione di informazioni con un botta e risposta da chatbot!

La relazione, come ho già affermato, fa parte della cura. Di fatto influenza lo stato degli interlocutori e modifica la capacità del paziente sia di fornire dati rilevanti e non necessariamente documentati durante un’anamnesi, sia di rispondere in modo positivo alla cura. E questo, lo abbiamo visto, è il risultato di una trasformazione emotiva e cognitiva che lo stesso linguaggio del medico/operatore della salute innesca.

Non basta un programma di AI per capire tutto ciò che serve a curare con successo una persona, né l’elaborazione dei dati diagnostici. Sono i collegamenti, le intuizioni, la comprensione oltre il mero dato che fanno la differenza. Negli ambiti di lavoro più complessi, per quanto l’AI faccia progressi nel movimento, nella percezione e nell’apprendimento, ci sono aree in cui la nostra mente supera ogni tentativo di riproduzione: creatività, empatia e abilità correlate.

AI E RETAIL

Diamo uno sguardo all’altra delle due anime che convivono in farmacia, un ambito in cui l’AI muove passi importanti. Nel tracciare i movimenti dei clienti ed elaborare big data fornisce per esempio informazioni che consentono di tarare campagne di marketing, prevedere l’effetto di operazioni di vendita online dando chiavi per una gestione ottimale della supply chain. Instore si traccia il percorso dei clienti, si applica l’AI al merchandising per orientare meglio l’interazione con la merce.
Ma ciò che più desta curiosità e fa tremare qualche addetto alle vendite è la prospettiva di introduzione sul punto vendita fisico di robot umanoidi. Pepper, l’ormai famoso robot della Softbank Robotics, ha già mosso i suoi primi passi come venditore in negozio, a partire dal Giappone. La versione aziendale, Pepper for Biz, si propone come assistente con funzioni che arrivano fino al dialogo con i clienti grazie alla sua “capacità” di apprendere e riconoscere anche stati d’animo e rispondere a essi.
Ora, se all’immagine di Pepper si affianca la già attuale e sempre maggiore sovrapposizione tra dimensione digitale e fisica nel customer journey di un popolo costantemente connesso e pronto a comparare e condividere informazioni mentre vive l’esperienza d’acquisto, è facile sentirsi destabilizzati e domandarsi che ruolo riservi il futuro alla vendita classicamente intesa… e al venditore.
Ma nonostante la rapidità di questa rivoluzione, i ricercatori al momento concludono ancora che nessun robot può sostituire quel che un eccellente venditore in carne ed ossa è in grado di fare, quello che la relazione umana può fare. E questo perché l’innesco di meccanismi di engagement, gratificazione e sensazione di fiducia richiedono una capacità alta, cognitiva ed emotiva insieme, di trasformazione reciproca venditore- cliente che si gioca in pochi attimi, e attimo dopo attimo.

Con la mia équipe studio processi codificati e riproducibili di cerimonia di vendita ad alto engagement, ma sappiamo che l’eccellenza si raggiunge allenando le persone anche con un set di soft skill che consente di personalizzare l’interazione con il cliente e creare una “magia” relazionale.
L’apprendimento, perché la nostra abilità cresca ben al di là dei limiti che sempre avrà l’AI, deve essere non solo procedurale (quando il cliente entra devi dire…/se il cliente fa questo, tu fai questo…) ma anche capace di percepire l’altro riconoscendo alcuni segnali “sottili”, sottotraccia, grazie a cui l’agire e il sentire di venditori o consulenti influenza il cliente nella giusta direzione.
Analisi di informazioni, profiling e mappatura dei movimenti del cliente sul punto vendita ci consentono di dare ai retailer, online e offline, chiavi preziose per i diversi touch point della costumer experience. Ma nell’alzare davvero il valore dello scontrino e innescare una profonda advocacy, la persona farà sempre la differenza.
Prepariamoci a vivere in quest’ottica anche la farmacia. Puntiamo sempre a dare ai clienti risposte che abbiano un valore aggiunto oltre l’algoritmo di consiglio che domani potrà stare dietro a una app,
una chatbot, o un Pepper che propone cosmetici e programmi di benessere.
Più che domandarci se siamo pro o contro l’evoluzione tecnologica, se la nostra professione resisterà alla supremazia dell’AI, è utile cambiare paradigma e prepararsi a usarla ampliando le competenze di intelligenza emotiva e sociale che saranno utili a governare il cambiamento e presidiare quelle aree fondamentali nei servizi complessi, nella salute, nel lusso, in farmacia, e che hanno bisogno di skill prettamente umane ad alta componente relazionale e creativa.
Erik Brynjolfsson, professore del MIT di Boston, ha detto: “Chi non
sa usare l’intelligenza artificiale non deve avere paura di quest’ultima. Deve piuttosto preoccuparsi delle persone che la sanno usare: sono loro che gli porteranno via il posto di lavoro, non le macchine”.
Ritorno sul “…faranno a meno di me”, la paura del farmacista. Sono convinta che sia inutile negare o ignorare il cambiamento. Meglio renderci indispensabili cambiando il modo di manifestare il nostro valore e usare l’AI come estensione del nostro potenziale perché non

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